da
Il Fatto Quotidiano
L'ultimo bando per
acquistare programmi proprietari di Microsoft è di 40 milioni. "Eppure
nel 90% dei casi basterebbe un software gratuito". L'ex ministro
Brunetta ha ridotto a un solo addetto l'Osservatorio sull'Open source.
Monti ha inserito nella manovra “Salva Italia” l’obbligo per la Pa di
“considerare” anche il software libero tra le scelte possibili. Ma non
quello di adottarlo nel caso effettivamente convenga
Un assegno da
quaranta milioni
di euro da Roma a Redmond. Forse l’impegno di spesa più sostanzioso di
tutti i tempi per fornire le pubbliche amministrazioni italiane di
software
Microsoft. La gara, indetta con procedura
telematica a maggio, scadrà il 18 giugno e dall’aggiudicazione in poi
gli enti potranno aderire acquistando licenze d’uso che valgono un anno.
Nel 2013 saranno da capo. E non è l’unica campagna acquisti in corso.
Fujitsu
si è appena aggiudicata la fornitura di 40mila licenze Office per 12,6
milioni di euro. Basta una rapida ricognizione sulla Gazzetta Ufficiale
per scoprire come ogni ente pubblico dello Stato italiano, centrale o
periferico, sia impegnato in una qualche gara per comprare
software proprietario.
Un fiume di denaro pubblico che, in un momento di ristretezze come
questo, non può che riportare in auge il tema dell’open source, il
codice sorgente libero e quasi gratuito.Se ne parla dalla fine
del secolo scorso, ma la strada per adottarlo è ancora tutta in salita.
Gli enti locali lo hanno fatto in modo marginale (database, Open-Office,
Csm…) e a macchia di leopardo; le Regioni hanno varato leggi e leggine,
ma non ce n’è una che abbia fatto una seria politica di migrazione al
software libero. A livello centrale è pure peggio: i governi degli
ultimi anni hanno smantellato quel poco che si era mosso sulla strada
del software libero. Così, insieme al tema dello spreco, inizia a
imporsi quello del mancato sviluppo di un’intera industria nazionale che
poteva essere rilevantissima in termini di occupazione. Insomma, lì ci
sarebbe lavoro per chi lo vuol vedere. “Ma la politica è miope”. Lo
denunciano le principali associazioni attive sui temi dell’open source e
open data, da
Agorà digitale all’
Associazione Nazionale Informatici Pubblici e Aziendali (Anipa).
“Il software libero – sostiene
Luca Nicotra,
segretario di Agorà Digitale – avrebbe un impatto decisivo
sull’economia locale dell’innovazione, farebbe lavorare professionisti e
imprese che oggi di fatto non hanno un mercato e non lo avranno fino a
quando le politiche nel settore pubblico saranno orientate al software
chiuso proposto da grandi e influenti produttori con relazioni
consolidate, rapporti pluriennali con amministrazioni centrali e
periferiche. Alcuni governi pensano che dobbiamo riprendere questo
controllo e dare la possibilità al paese, alle industrie locali, ai
giovani programmatori di poter avere un ruolo nello sviluppo
tecnologico. L’Italia su questo fronte non ha una sua visione e rischia
di essere una centrale per gli acquisti a beneficio dei soliti noti,
siano essi Microsoft, Ibm, Oracle o altri”.
Rincara la dose
Flavia Marzano, presidente degli
Stati Generali dell’Innovazione,
docente universitaria e consulente in materia di nuove tecnologie in
Pubblica Amministrazione: “Quei 40 milioni sono la punta dell’iceberg
perché le amministrazioni acquistano di tutto e di più, anche quando
l’alternativa è disponibile gratuitamente. Scandaloso il caso delle
licenze di Office che gli enti locali continuano a comprare spendendo 30
milioni di euro quando c’è il corrispettivo Open Office”.
Secondo
l’esperta la PA non ha bisogno di software proprietario “se non per un
10% di applicativi custom molto specifici venduti con licenza. Nel 90%
dei casi, dal data base ai software di produttività personale e
operativo non hanno bisogno. Il punto è che da troppi anni, da troppi
governi, non sono state definite strategie a lungo termine per
l’innovazione del Paese e questo anche per lo strapotere delle lobby che
hanno in mano il mercato senza che nessuno controlli e metta loro un
freno”. Il tema sarà dibattuto ampiamente nella VI Conferenza italiana
sul software libero in programma all’Università di Ancona il 21 giugno.
Il
dato di fatto, insomma, è che l’open source è rimasto al palo. Eppure
gli esempi positivi, di innovazione e risparmio, in questi anni non sono
mancati. Nel 2009 la
Provincia di Bolzano ha adottato
il software libero in un’ottantina di scuole pubbliche: spendeva in
licenze 269mila euro l’anno, ora ne spende 27mila in manutenzione. Si
calcola che se la stessa cosa facesse la
Regione Sicilia
si otterrebbe un risparmio annuale di 10 milioni di euro. Ma anche su
questo fronte poco si muove. Toscana, Veneto , Piemonte, Umbria e Lazio
hanno varato leggi regionali per agevolare l’adozione del software
libero che sono rimaste sulla carta, dichiarazioni di intenti dal valore
più simbolico che programmatico. “Io stessa ho partecipato all’iter che
doveva portare Soru in Sardegna e Vendola in Puglia a una migrazione.
Due fallimenti completi. Una volta riempito il cassetto di studi, anali e
proposte è stato chiuso”, spiega la Marzano.
Nel frattempo a
livello nazionale è successo qualcos’altro. I governi degli ultimi anni
non hanno investito nulla sull’open source. Peggio, hanno addirittura
smantellato quel poco che era stato messo in campo per promuoverne
conoscenza e diffusione. Nel 2003 è stato istituito l’Osservatorio
sull’Open source per catalogare i programmi senza licenza utili alle
amministrazioni. L’Osservatorio è poi stato ridotto dal ministro della
Funzione Pubblica
Renato Brunetta a un ufficio senza
fondi. Oggi esiste ancora, ma da due anni ha un solo addetto. “Mettiamo
che ci sia un amministratore illuminato – ipotizza la Marzano – che
voglia davvero smetterla di sprecare soldi pubblici in licenze, dove
trova le alternative? Non c’è più un repository nazionale o un centro di
competenza cui chiedere. Così, ogni amministrazione fa piccoli passi
avanti per proprio conto, mentre la crescita dell’open source condiviso e
scambiato sarebbe esponenziale”. Il “nuovo Codice dell’amministrazione
digitale” di Brunetta non cita neppure la parola. Di open source non c’è
traccia neppure nelle note. Una scelta sorprendente visto che lo stesso
sito dedicato a spiegare la Riforma Brunetta è stato realizzato col cms
open source Drupal.
Il risultato dell’abbandono è che, ad oggi,
non si sa neppure quanto globalmente spenda il nostro paese come cliente
di licenze proprietarie e quanto ricorra invece al software con codice
sorgente libero e gratuito. I dati sull’acquisto, come detto, sono
spersi in mille rivoli.
Assinform nel 2003 stimava una
spesa globale in Ict pari a 3 miliardi di euro (1,7 per quella centrale,
1,2 per la periferica) di cui circa
675 milioni in software con licenza.
Statistiche più aggiornate non ce ne sono. Ed è paradossale perché
proprio l’Istituto nazionale di statistica (Istat), da cinque anni a
questa parte, è progressivamente migrato verso l’Open Source con un
risparmio che il responsabile dello sviluppo software
Carlo Vaccari
stima pari al 50%. Nel 2003 Istat spendeva 1,2 milioni di euro l’anno
in software proprietario, oggi spende meno della metà e sviluppa in
proprio gli applicativi e i sistemi open di cui ha bisogno.
Anche il governo tecnico di
Mario Monti,
è l’opinione degli esperti, si è rivelato piuttosto “timido” nei
confronti del software libero, anche se molti ricordano la battaglia tra
l’allora commissario europeo e il gigante
Bill Gates
finita con una multa da 500 milioni di dollari per il magnate di
Redmond. Da premier, Monti ha cambiato strada. Su pressione del radicale
Marco Beltrando, che ha fatto passare un apposito
emendamento in Senato, il capo del governo ha inserito nella manovra
“Salva Italia” l’obbligo per la PA di “considerare” anche il software
libero tra le scelte possibili (articolo 29-bis). Ma non quello di
adottarlo nel caso effettivamente convenga. Una misura a metà, insomma. A
esprimere quel parere è l’Ente nazionale per la digitalizzazione della
Pubblica Amministrazione (Digipa). Il suo presidente,
Francesco Beltrame, non fatica ad ammettere che l’open source è ancora “una scelta marginale, tanto da non fare statistica”.
Anche l’
Agenda Digitale
promessa da Monti è in alto mare. Annunciata trionfalmente come decreto
“DigItalia”, doveva essere inserita nelle liberalizzazioni di febbraio
ma è slittata a fine giugno e probabilmente sarà sul tavolo del governo
ad agosto e nella forma di una serie di linee guida e niente di più.
“Sono intervenuta nella commissione che si occupa di open data –
racconta la professoressa Marzano – e penso che sul fronte dell’open
source non ci sia ancora la forza e la volontà politica di bloccare la
corsa agli acquisti che semplifica la vita ai burocrati e rende felici
le grandi imprese del software.
La strategia è tirare alla lunga
anche se proprio un governo di tecnici come questo dovrebbe capire al
volo che l’investimento nell’open source è strategico: magari all’inizio
la migrazione costa nella formazione per i dipendenti, per far
transitare gli applicativi e dati, ottimizzare i programmi. Ma è
lampante che, fatto questo investimento, presto o tardi lo Stato
arriverà al pareggio, da un certo punto in poi inizierà a fare risparmi
incalcolabili. Per non parlare dell’indotto che una seria migrazione
avrebbe sull’economia locale, dando uno sbocco a imprese e
professionisti del software artigianale che oggi in Italia ci sono ma
operano ai margini”.